La mente umana reagisce diversamente a seconda dei pensieri che la ‘attraversano’. Questi ultimi possono generare una risposta più o meno analitica a seconda delle zone cerebrali maggiormente stimolate.
Cosa succede nella mente di un manager a capo di un’importante area di business, quando pensa ai problemi che quest’ultima deve affrontare? Tipicamente, numeri, rapporti di causa effetto, probabilità e altri aspetti che fanno parte di un approccio molto più scientifico che qualitativo.
Ragionando per assurdo, tuttavia, se bastasse solo un solido e ben calibrato approccio matematico/quantitativo per gestire al meglio ogni aspetto aziendale, allora dovrebbe esistere una correlazione positiva perfetta tra ‘capacità di calcolo’ e successo aziendale. Il che è tanto affascinante quanto poco realistico.
In molti casi la correlazione è certamente importante: il successo di Google sta nei suoi segretissimi e complicatissimi algoritmi. Amazon invece ha ingegnerizzato così bene i suoi processi logistici che può gestire ordini e consegne a tempi di record e senza errori. In effetti non è un caso che queste aziende attirino talenti con competenze analitiche e di problem solving elevate, oltre a dotarsi di tecnologie innovative molto rare e costose.
Alcuni produttori di beni di consumo non durevoli, tuttavia, sperimentano di certo con maggiore frequenza la mancanza di una correlazione forte tra approccio razionale/scientifico e successo imprenditoriale.
Su cosa quindi devono fare leva i dirigenti di queste importanti multinazionali per innescare un processo di miglioramento continuo delle performances e per raggiungere anno su anno gli obiettivi? Perché non basta un solido approccio analitico per abbattere i costi, migliorare la qualità percepita dal cliente o incrementare la quota di mercato?
Un approccio analitico contribuisce molto al successo dell’azienda, purché si capisca che misurare non basta. Spesso inoltre si cade nella tentazione di delegare, magari a collaboratori più junior, attività considerate ‘meccaniche’ al fine di usare poi i risultati per definire la strategia o prendere le decisioni finali.
Immaginiamo di essere nei panni del direttore generale di una multinazionale che produce acque minerali. Ogni mattina, quando arriva alla sua scrivania, dispone di molte informazioni nella sua testa, in parte perché le ha ricavate in precedenza dai sistemi aziendali o dai suoi collaboratori e, in parte, perché li deduce dall’esperienza pregressa nel ruolo.
A questo punto possiamo analizzare la questione sistematicamente come segue: se ‘le cose vanno bene’ il problema non si manifesta. Se ‘le cose vanno male’, emerge la necessità di agire. In quest’ultimo caso poi, se il problema è chiaramente identificabile, il dirigente può iniziare subito a raccogliere dati e informazioni per elaborarli e migliorare la performance sapendo esattamente di cosa ha bisogno. Se, come sempre più spesso accade, il problema manifesta gli effetti ma è difficile risalire alle sue cause, il direttore si trova nella situazione di non sapere cosa chiedere e a chi.
Di solito si inizia dai dati che si è sempre chiesti, avviluppandosi in ragionamenti già fatti, che, indipendentemente dal grado di approfondimento, non portano a soluzioni efficaci.
l’intensità e la precisione dell’analisi non è più correlata al successo. Che fare dunque?
In questi casi, la prima cosa da fare è porsi domande nuove. Chiedersi se le bottiglie di acqua nell’ultimo trimestre stanno registrando un calo in un canale preciso, se le marginalità sono a rischio, se la quota di mercato si sta riducendo rispetto all’anno scorso oppure se ci sono dei ritorni dagli investimenti pubblicitari è sensato.
Ancora più interessante sarebbe chiedersi, ad esempio, se il bisogno che soddisfa la bottiglia che vendiamo è davvero la sete. In entrambi i casi dovremo misurare ma mai come nel contesto economico attuale, specialmente in seguito agli effetti che il coronavirus ha avuto sui bisogni dei consumatori, è cruciale imparare a modificare il punto di osservazione dei problemi con estrema flessibilità.
Il secondo passaggio è dotarsi degli strumenti adeguati. ‘Cosa posso sapere e come?’, sembra una domanda filosofica, in realtà è il vero dilemma delle moderne organizzazioni. Riusciamo a misurare il fatturato spaccato per area geografica, per punto di vendita, per canale, o per singolo capo area. Tuttavia, la domanda nuova che ci siamo posti al passaggio precedente, potrebbe richiede dati ‘diversi’ molto difficili da ottenere senza strumenti agili e adeguati.
Il terzo passaggio consiste nel far diventare questo schema parte naturale del proprio metodo manageriale, accettando che anche con i numeri qualche volta dobbiamo creare, sperimentare e perché no, improvvisare, proprio come un musicista che compone una sinfonia, o un pittore che cerca l’equilibrio nei colori di un dipinto.
Misurare il proprio business significa soprattutto guardarsi dentro alla ricerca di strumenti nuovi. Le aziende sono come le persone, sono in evoluzione, crescono in modo a volte inaspettato, sviluppano competenze in funzione dell’ambiente. Non è solo una questione di formule e numeri.
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